L’inidoneità alla mansione non legittima il licenziamento del lavoratore
De Luca & Partners
Avv. Enrico De Luca – Avv. Luca Cairoli
Con l’ordinanza n. 31471 del 13 novembre 2023, la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sul tema del licenziamento di un lavoratore per sopraggiunta inidoneità alla mansione.
Al termine dei tre gradi di giudizio la Corte di Cassazione ha confermato la pronuncia della Corte d’Appello, la quale, annullando il licenziamento intimato, ha rilevato come le prescrizioni che la società avrebbe dovuto adottare (su indicazione del medico competente) non sarebbero state gravose al punto da giustificarne il recesso.
I fatti di causa
Un lavoratore, dopo essere stato licenziato per sopraggiunta inidoneità alla mansione (quindi per giustificato motivo oggettivo), ha impugnato il licenziamento avanti al Tribunale di Viterbo.
Il Tribunale di merito, pronunciandosi in primo grado, ha accolto l’impugnazione promossa dal lavoratore annullando il licenziamento e ordinando la reintegrazione del dipendente, anche in considerazione del fatto che la ridotta capacità lavorativa implicasse solamente delle semplici limitazioni allo svolgimento della mansione, a fronte delle quali l’impresa avrebbe dovuto adottare accorgimenti per consentire l’esecuzione della prestazione lavorativa.
Con la medesima pronuncia, il Tribunale ha altresì rimarcato come il datore di lavoro avrebbe dovuto, in ogni caso e prima di procedere con il licenziamento, promuovere un ricorso avverso il giudizio del medico competente.
Avverso tale pronuncia la Società ha proposto reclamo avanti alla Corte d’Appello di Roma.
In detta sede, la Corte ha ribadito come il datore di lavoro: (i) abbia facoltà di proporre ricorso all’organo di vigilanza previsto dalla legge; (ii) non abbia contestato la valutazione espressa dal medico competente.
I Giudici d’Appello, nella valutazione dei fatti di causa e delle deduzioni delle parti, ribadiscono come la materia sottesa al caso in esame debba essere trattata anche tenendo presente la nozione di “handicap” desumibile dalla direttiva n. 78/2000/CE del 27 novembre 2000 sulla parità di trattamento in materia di occupazione. Alla stregua della normativa richiamata “vige un tendenziale principio di divieto di licenziamento del lavoratore divenuto disabile, dovendo il datore di lavoro cercare soluzioni organizzative e accorgimenti ragionevoli idonei a consentire di svolgere il lavoro”.
La sentenza della Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso proposto dalla Società, non accogliendo alcuno dei motivi e aderendo alla pronuncia della Corte d’Appello.
È stato ritenuto come le prescrizioni del medico competente consistessero in accorgimenti possibili e non eccessivamente e/o economicamente gravosi per la società. Per tale ragione quindi – alla luce della normativa comunitaria richiamata – non sufficienti a giustificare l’espulsione di un lavoratore con ridotta capacità produttiva.
Come ricordato più volte dalla giurisprudenza, il principio di divieto di licenziamento del lavoratore disabile (o divenuto tale) impone al datore di lavoro di cercare soluzioni e di adottare, a proprie spese, “accorgimenti ragionevoli”, anche modificando il proprio assetto organizzativo al fine di tutelare il lavoratore in condizioni di perdurante menomazione.
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