2025-07-16

Indagine LHH sul tema Pinkwashing nel Bel Paese: lo sguardo dei manager italiani sulla “parità di genere senza sostegno effettivo”

Nell’odierno contesto sociale si parla sempre più di Pinkwashing, un termine che trova particolare attualità anche nel mondo del lavoro. Nello specifico, in ambito aziendale indica la promozione di policy e atteggiamenti di apertura nei confronti dell’emancipazione femminile, che però nell’effettiva praticità non si traduce in un corrispettivo reale impegno. Ma qual è l’attuale stato dell’arte in merito nelle aziende italiane?  E cosa ne pensano le figure apicali? LHH – società parte del Gruppo Adecco – specializzata in servizi di consulenza HR e gestione del talento lungo l’intero talent journey – ha condotto un’indagine attraverso il contributo dei manager per provare a rispondere a tali e altre domande circa la questione Pinkwashing.

 

Pinkwashing: riguarda 3 aziende italiane su 4 (75%)

Nonostante alla stragrande maggioranza dei dipendenti (84%) non importi il genere del proprio manager – ma solo le sue competenze, emergono un paio di scenari da considerare: in oltre la metà (58%) delle aziende italiane mancano azioni che favoriscano l’accesso delle donne a ruoli apicali e nell’80% dei business le donne nella C-suite sono meno della metà dei colleghi uomini.

Emerge un’incoerenza tra comunicazione aziendale esterna e le attività realmente portate avanti internamente per favorire le pari opportunità di genere e l’accesso delle colleghe ai vertici. Si tratta di una questione di Pinkwashing che riguarda 3 aziende italiane su 4 (75%) – una situazione particolarmente sentita più dalle donne (81%) rispetto ai colleghi, i quali sono meno interessati al tema (22%) o pensano sia inesistente (22%).

 

Non ci sono programmi di parità di genere secondo chi non gestisce un team (72%)

Il percepito sul tema dell’uguaglianza di genere varia sia in base al ruolo ricoperto dai rispondenti sia alle dimensioni dell’azienda per la quale questi lavorano. Infatti, dirigenti, manager e quadri sono più allineati e hanno un approccio più positivo quando si parla di equità; inoltre, più la realtà lavorativa è di grandi dimensioni e più nitida è la visione che tali programmi inclusivi siano previsti.

Forse perché coinvolti in prima persona, ma coloro che gestiscono uno o più gruppi di lavoro visualizzano uno scenario maggiormente fluido e collaborativo.

Si evince che nel momento in cui l’organizzazione prevede azioni di inclusività di genere, queste non vengono recepite da tutta la famiglia aziendale, la comunicazione di tali policy pare non raggiungere tutti i livelli della gerarchia. Infatti, il 72% di chi pensa non ci siano politiche per favorire l’accesso delle donne a ruoli apicali non gestisce un team.

 

Cosa manca in azienda? Collaborazione (27%), flessibilità oraria (27%) e smartworking (25%)

I business del Bel Paese sono consapevoli che i vantaggi significativi nell’attuare la parità di genere siano molteplici: sanno che prospettive diverse stimolano nuove idee (54%), che un pool di tipologie di talenti variegato favorisce empatia (49%) e che l’inclusività tende a evitare turn over di talenti (40%).

A fronte di queste consapevolezze, cosa manca dunque nelle aziende dello Stivale affinché si possa parlare di reale parità e inclusività di genere al lavoro?

Le azioni che le aziende attuano concretamente per favorire l’accesso delle donne a ruoli apicali avvengono attraverso pari opportunità di crescita (63%), retribuzione (51%) e possibilità di formazione lavorativa (51%).

Al tempo stesso, in oltre 1 azienda su 4 (27%) si percepisce un ambiente poco collaborativo, con ristretta flessibilità oraria (27%) e senza un’effettiva apertura a programmi di “work from anywhere” e smartworking (25%). Quest’ultimo aspetto, che si traduce in una mancanza di equilibrio tra vita privata e lavorativa, è maggiormente sentito dalle donne (29% vs 11% dei colleghi), più attente a queste tipologie di “benefit” che spesso consentono loro di occuparsi sia della propria carriera che dei propri cari.

“Risulta sempre più cruciale adottare un cambiamento sostanziale che si rifletta nelle pratiche quotidiane dell’azienda. Investire in policy interne che promuovano l’uguaglianza di genere è basilare non solo da un punto di vista di business, ma anche su un fronte etico, si tratta di un tema che merita azioni effettive e reali”, commenta Luca Semeraro, Country President Italy e SVP Recruitment Solutions DACH, Netherlands and Poland di LHH. “L’attuazione di programmi dedicati però non è sufficiente, è anche necessaria una comunicazione interna appropriata e autentica che consenta a tutte le figure presenti nei team di lavoro di conoscere l’esistenza di tali politiche e la loro messa in pratica, oltre all’indiscutibile rilevanza. Anche in questo caso, come per altre azioni legate più in generale alla DE&I (Diversity, Equity and Inclusion), anche per l’uguaglianza di genere è bene che le figure dirigenziali in primis siano mentori di un approccio open minded e collaborativo. Tutto ciò consente di fare la differenza e distinguere i business che credono veramente nel cambiamento, da quelli che lo impiegano solo per obiettivi di profittabilità”, conclude Semeraro.

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