2018-06-29

COCUZZA & ASSOCATI

La nuova legge sul Whistleblowing

Aspetti giuslavoristici

A cura di Domenica Cotroneo 

Whistleblower, letteralmente colui che “soffia nel fischietto”, è il dipendente, pubblico o privato, che denuncia episodi di corruzione e irregolarità alla magistratura o all’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC).

Sulla base di quanto stabilito dal testo di legge in commento, il whistleblower sarà tutelato in maniera assoluta ed in due direzioni: verso l’esterno, dal momento che è vietato rivelarne l’identità; internamente, dato che non potrà essere punito per il suo gesto.

In particolare la legge prevede, a carico del datore di lavoro, l’istituzione di appositi canali di “segnalazione” che garantiscano la riservatezza dell’identità del segnalante nell’ambito delle attività di gestione della segnalazione.

Altresì, il legislatore fa espresso divieto di atti di ritorsione o discriminatori, diretti o indiretti, nei confronti del segnalante per motivi collegati, direttamente o indirettamente, alla segnalazione.

In ultimo, a completamento dello specifico sistema sanzionatorio che dovrebbe tutelare il segnalante e mettere al sicuro il datore di lavoro dal ricevere segnalazioni strumentali e fraudolente, viene prevista l’adozione di specifiche sanzioni nei confronti di chi viola le misure di tutela del segnalante, nonché di chi effettua con dolo o colpa grave segnalazioni che si rivelano infondate.

Il meccanismo che abbiamo sinteticamente delineato risulta certamente volto a garantire la funzionalità del sistema e l’insieme di tutele ad oggi delineato, in astratto, appare del tutto razionale oltre che consono alla delicata situazione di riferimento. Qualche perplessità nasce nel momento in cui si prova ad immaginare quale potrebbe essere la deriva applicativa della normativa, soprattutto a fronte del fatto che la norma non ha ancora passato il vaglio di interpreti e magistratura.

Tra i punti che destano maggiore interesse, in questa sede segnaliamo quello relativo alla nullità degli atti che saranno classificati dal giudice del lavoro ritorsivi o discriminatori, che daranno luogo ad una sentenza di condanna del datore di lavoro e, se del caso, al reintegro del lavoratore nel posto di lavoro e ripristino della situazione esistente originariamente.

Il licenziamento ritorsivo è ben noto alla giurisprudenza italiana che, con un orientamento ormai consolidato, stabilisce che al fine di ottenere il riconoscimento della natura ritorsiva dell’atto impugnato è necessario che ricorrano due elementi: (i)         il motivo di ritorsione (o motivo illecito); (ii)            l’assenza di altre ragioni determinanti il recesso, ovvero, l’esclusività del motivo.

Altresì, sempre per la giurisprudenza, il lavoratore che contesti il carattere ritorsivo del licenziamento ha l’onere, completamente a proprio carico, di provare, con sufficiente certezza ed elementi specifici, sia l’intento di rappresaglia, sia che tale intento ha avuto efficacia determinativa ed esclusiva della volontà espulsiva del datore di lavoro.

La suddetta prospettiva viene completamente capovolta laddove il licenziamento (od altro provvedimento) riguardi il whistleblower dato che, in questa ipotesi, l’onere della prova, sulla base della nuova norma, risulterà completamente invertito.

Spetterà cioè al datore di lavoro dimostrare che le misure adottate e contestate sono motivate da ragioni estranee al processo di segnalazione avviato dal dipendente.

La novità non è di poco conto. Alla luce di quanto precede, infatti, ciascun datore di lavoro sarà chiamato a valutare preventivamente ed attentamente ogni e qualsivoglia iniziativa volta a modificare il rapporto di lavoro del personale coinvolto in un processo di whistleblowing.

Il rischio maggiore, a parere di chi scrive, è rappresentato dalla possibilità che anche provvedimenti del tutto legittimi e tutelabili, in quanto giustificati dal ricorrere di esigenze di carattere squisitamente imprenditoriale, per il semplice fatto di coinvolgere un whistleblower, possano cadere nelle maglie della nuova disciplina in materia di onere della prova.

L’esempio più banale è rappresentato dall’esigenza di trasferire oppure variare le mansioni, iniziative del tutto ordinarie e ricorrenti nella vita dell’impresa di oggi. E gli esempi potrebbero essere infiniti dato che la norma in esame parla genericamente di “atti di ritorsione o discriminatori, diretti o indiretti”, senza fare alcuna casistica.

Ebbene, a fronte del dettato normativo, tutte le iniziative suscettibili di “peggiorare”, seppur in senso lato, l’attività lavorativa del whistleblower risultano potenzialmente, e strumentalmente, contestabili sotto il profilo della natura ritorsiva, per il solo fatto di affliggere un whistleblower,

E mentre in passato era onere del dipendente dimostrare il carattere ritorsivo dell’iniziativa datoriale, in maniera puntuale e convincente, rischiando anche la condanna alle spese del giudizio in caso di mancata prova, oggi l’intero processo giustificativo sarà a carico del datore di lavoro.

Ovviamente la nostra è una prospettiva di analisi “de iure condendo”, in attesa di vedere quali saranno gli effetti sul campo di una normativa che, a prescindere dagli aspetti critici appena evidenziati, pone obiettivi e tutele del tutto ragionevoli e pienamente condivisibili.

 

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