2020-03-24

UN ALTRO VIRUS SI STA DIFFONDENDO. QUANDO LE BUFALE PROVOCANO L’INFODEMIA

Avv. Lorenzo Cantone

I termini epidemia e pandemia sono purtroppo più che mai attuali e fanno paura, perché correlati ad un virus che sta causando troppe vittime e sta cambiando la nostra vita. Ma c’è un’altra parola che dovremo cominciare a conoscere, in quanto individua un altro fenomeno che sta facendo sempre più danni, spesso gravissimi. Questa parola è “pandemia”.

La pandemia è la diffusione incontrollata di una moltitudine di notizie distorte, parziali o persino volutamente inventate, che allarma e rende difficile – se non impossibile – distinguere il vero dal falso su fatti e situazioni che, come l’emergenza coronavirus, necessiterebbero invece di una informazione corretta.

La pandemia è sempre esistita. L’altro ieri era creata dalle leggende, più o meno metropolitane, per lo più diffuse oralmente. Ieri si chiamava disinformazione e se ne incolpava le radio, le televisioni e i giornali. Oggi si parla di bufale – fake news per gli esterofili – e si punta l’indice contro internet e social networks, individuati come i principali responsabili delle infodemie che avvelenano la nostra comprensione del presente, le nostre aspettative per il futuro e persino i nostri ricordi del passato.

Tanto che c’è chi ha proposto nuove normative ispirate all’intenzione di colpire proprio e soprattutto i social networks, criminalizzandoli e/o obbligandoli a controllare i contenuti pubblicati, censurando le informazioni false. Una tendenza pericolosa perché la decisione relativa alla veridicità di una notizia non è sempre facile o oggettiva; demandandola al gestore di un social network gli si attribuisce anche la facoltà di limitare arbitrariamente la libertà di pensiero ed espressione dei suoi utenti, in palese contraddizione le libertà di pensiero ed espressione garantite dalla nostra Costituzione. E del resto le bufale non scorrazzano solo su internet. L’infodemia ha innumerevoli strumenti di diffusione: televisioni e giornaloni compresi.

Comunque, a prescindere da nuove iniziative legislative, le normative vigenti consentono già di contrastare efficacemente la diffusione di notizie false e dannose. Le bufale sono già oggi punibili, anche se non c’è un reato di “diffusione di bufale”. Il nostro ordinamento prevede varie norme penali alle quali si può ricorrere a seconda del tipo, della gravità e della finalità della fake news.

Soccorre prima di tutto l’art. 656 del codice penale, secondo il quale “chiunque pubblica o diffonde notizie false, esagerate o tendenziose, per le quali possa essere turbato l’ordine pubblico, è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a 309 euro”.

Reato analogo, sanzionato con l’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda da dieci euro a 516 euro, è quello di procurato allarme, di cui all’art. 658 del codice penale, nel quale incorre, “chiunque, annunciando disastri, infortuni o pericoli inesistenti, suscita allarme presso l’Autorità, o presso enti o persone che esercitano un pubblico servizio

Si tratta di reati che non appaiono richiedere da parte dell’imputato, il dolo e la consapevolezza della falsità della notizia o della insussistenza dell’allarme ingenerato nella pubblica opinione. Può quindi essere perseguito penalmente anche chi in buona fede condivida la bufala pubblicata da un giornale od un conoscente.

Un analogo reato, punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000 a 15.000 euro, è quello previsto dall’art. 661 del codice penale, che colpisce l’abuso della credulità popolare dal quale possa derivare un turbamento dell’ordine pubblico.

Siamo in presenza di contravvenzioni che non richiedono il perseguimento da parte del reo di un preciso tornaconto personale e ben possono colpire anche il leone da tastiera che agisca per mero sfizio o cattiveria.

Qualora la diffusione di notizie false e l’invenzione di allarmi siano correlate a campagne d’odio volte a incitare alla violenza o alla discriminazione per motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali, è configurabile pure il delitto di cui alla cosiddetta Legge Mancino (n. 205 del 25 giugno 1993) con sanzioni significative e niente affatto leggere, che vanno dai sei mesi ai 4 anni di reclusione e con la multa da 6.000 fino ad un milione di euro.

Ma è anche vero che la pubblicazione di bufale può essere volta a danneggiare singole persone, offendendo la loro reputazione, anche con la falsa attribuzione di fatti determinati. In tal caso si configura il delitto di diffamazione (art. 595 del codice penale, con la possibile aggravante della diffusione a mezzo stampa), punibile con la multa fino a 2.065 euro e con la reclusione fino a due anni.

Non si può infine sottacere come alcune bufale non siano partorite e diffuse solo per schernire, offendere o diffondere false convinzioni, nelle quali i creatori di fake news più o meno credono per ignoranza o dogmatismi ideologici.

Alcune bufale vengono pubblicate ad arte per conseguire veri e propri vantaggi economici e commerciali. Per aumentare o diminuire il prezzo delle merci. Oppure per screditare i prodotti o l’attività di un concorrente.

In questi casi le vittime possono chiedere il risarcimento dei danni subiti, ai sensi dell’art. 2598 del codice civile che qualifica come atti di concorrenza sleale le diffusioni di notizie e apprezzamenti sui prodotti e sulle attività dei concorrenti, idonee a determinarne il discredito.

Ed è anche configurabile il delitto di cui all’art. 501 del codice penale (sanzionato con la reclusione sino a tre anni e con la multa sino a 25.000 euro) qualora la diffusione di notizie false, esagerate o tendenziose sia volta a turbare il mercato interno dei valori o delle merci, cagionandone un aumento o una diminuzione dei prezzi o valori.

Insomma, chi diffonde fake news, rendendosi, più o meno consapevolmente, responsabile della infodemia dilagante dovrebbe quindi prestare più attenzione a ciò che fa. Vale per chi crea le bufale, per chi le diffonde per faciloneria o ignoranza, per chi le riprende o condivide, anche sulla pagina del suo social network. Ma vale anche per il giornalista professionista in cerca di scoop a tutti i costi, magari ai danni dei propri concorrenti o avversari politici.

 

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