2019-10-09

BAKER MCKENZIE

La figura dell’amministratore-dipendente: i chiarimenti dell’INPS

di avv. Sergio Antonelli, avv. Uberto Percivalle  e dott.ssa Giulia Bifano  

 

Con il recentissimo messaggio n. 3359 pubblicato il 17 settembre scorso, l’INPS fornisce importanti precisazioni sul tema della compatibilità tra la titolarità di cariche sociali nell’ambito di società di capitali e lo svolgimento di attività di lavoro subordinato. Nel ripercorrere il tracciato della giurisprudenza, l’ente precisa anzitutto come, in linea generale, per i presidenti, gli amministratori unici ed i consiglieri delegati di società di capitali possa essere riconosciuto un rapporto di lavoro subordinato con la medesima società. A tale fine, tuttavia, è necessario che sussistano, per ciascun caso specifico, le caratteristiche proprie della subordinazione: per essere validamente qualificato come dipendente, dunque, l’amministratore deve anzitutto rimanere assoggettato al potere direttivo, di controllo e disciplinare dell’organo di amministrazione dell’ente. In sostanza, pertanto, neppure la carica di presidente è di per sé incompatibile con lo status di lavoratore subordinato: condizione per la coesistenza di tali ruoli è che tale presidente, al pari di qualsiasi membro del consiglio di amministrazione, sia soggetto alle direttive, alle decisioni ed al controllo dell’organo collegiale. E dunque, neppure può essere negata la eventuale subordinazione del presidente a cui sia stato conferito il potere di rappresentare la società, fintanto che una simile delega non estenda automaticamente allo stesso i diversi poteri deliberativi. Seguendo il medesimo filo logico, l’INPS si occupa poi della figura dell’amministratore unico: in questi casi, la circostanza che l’amministratore abbia il potere di esprimere da solo la volontà della società, essendo anche il detentore di tutti i poteri di controllo, comando e disciplina, esclude ogni possibilità compatibilità della carica con il lavoro subordinato. Ed infatti, manca in questo caso la necessaria distinzione tra la posizione del lavoratore in qualità di organo direttivo della società e quella del lavoratore come soggetto esecutore delle prestazioni lavorative personali. Caso diverso, invece, quello dell’’amministratore delegato, in cui è l’ampiezza della delega conferita dal consiglio di amministrazione a definire se e a quali condizioni si possa parlare di subordinazione. Ed infatti, solo laddove l’amministratore sia munito di delega generale con facoltà di agire senza il consenso del consiglio di amministrazione è necessario escludere in principio che possa intrattenersi un valido rapporto di lavoro subordinato tra l’AD e la società. D’altra parte, l’attribuzione da parte del consiglio di amministrazione del solo potere di rappresentanza o di specifiche e limitate deleghe all’amministratore non vieta, in linea generale, che possa anche esistere un genuino rapporto di lavoro subordinato. In ogni caso, ai fini dell’esatta qualificazione di ciascun rapporto, è sempre necessario che la condizione dell’ amministratore delegato-dipendente sia valutata dagli organi ispettivi non solo  tenendo in considerazione l’esistenza degli indici propri della subordinazione in generale, ma anche avendo riguardo ai rapporti intercorrenti fra l’organo delegato e il consiglio di amministrazione, anche valutando la pluralità ed il numero degli amministratori delegati e la facoltà di agire congiuntamente o disgiuntamente. Coerentemente con i criteri espressi finora, l’ente previdenziale fornisce poi taluni chiarimenti con riguardo alla possibile subordinazione dei soci, escludendone la possibile esistenza nei soli in casi in cui la qualità di socio coincida con l’assunzione di poteri di gestione della società esclusivi o, più in generali, con la concentrazione della volontà del soggetto giuridico in quella del solo socio-lavoratore. Pertanto, è sempre necessario escludere che possa esservi subordinazione con riferimento al socio unico: la concentrazione della proprietà delle azioni nelle mani di una sola persona, indipendentemente dall’esistenza della società come distinto soggetto giuridico, vale ad escludere ogni effettiva soggezione del socio alle direttive di un organo societario. Allo stesso modo, il socio che – indipendentemente dalla propria quota- abbia assunto di fatto nell’ambito della società l’effettiva ed esclusiva titolarità dei poteri di gestione, non può assumere anche la diversa figura di lavoratore subordinato. In linea generale, prosegue l’INPS, anche il socio di società di capitali che assommi in capo a sé anche l’incarico di amministratore può essere considerato validamente titolare di un rapporto di lavoro subordinato: in simili casi, tuttavia, è necessario attenersi agli insegnamenti della Corte di Cassazione, secondo cui è necessario vagliare disgiuntamente, caso per caso, sia la condizione di possessore di parte del capitale sociale sia l’incarico gestorio. Pertanto, una volta stabilita l’astratta possibilità di instaurazione, tra la società e la persona fisica che la rappresenta e la gestisce, di un autonomo e parallelo diverso rapporto che può assumere le caratteristiche del lavoro subordinato, dovrà accertarsi in concreto l’oggettivo svolgimento di attività estranee alle funzioni inerenti al rapporto organico e che tali attività siano contraddistinte dai caratteri tipici della subordinazione.

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